lunedì 12 agosto 2013

Semplicissima felicità

(di Alessandro D'Avenia)

Nell’atrio della mia scuola alla fine dell’anno è apparso un albero, con il tronco e i rami di compensato e le foglie di carta multicolore. In cima all’albero è scritto: «Felicità è…». In ogni foglia è contenuta la risposta di un bambino della scuola materna.

Mi sono fermato a leggere una per una quelle foglie, quasi fosse il responso nell’antro della Sibilla cumana. E ho scoperto che la felicità per i bambini non solo è semplicissima, ma è soltanto relazionale. Tutte le foglie sono dedicate ad altri: familiari e amici. Nessuno di quei bimbi è felice da solo. Le foglie sono, per la maggior parte, dedicate ai genitori, ai padri in particolare: felicità è «quando papà mi gonfia un palloncino e giochiamo insieme», «quando papà mi fa il solletico». Felicità è: padri che giocano con i figli.

Mi sono reso conto che la mia felicità non era all’altezza di quella di quei bambini. La mia felicità è molto più complicata, assomiglia a un contenitore pieno di oggetti nuovi, di luoghi da vedere e di eventi futuri. È tutta coniugata al futuro e all’assente. Invece la felicità dei bambini non ha tempo e non ha spazio, anzi, meglio, ha il presente come unico tempo e la presenza come unico spazio. È relazionale, non individuale. Quanto tempo la cultura in cui sono immersi questi bambini ci metterà a cambiare il loro modo così chiaro e univoco di essere felici? C’è un antidoto per proteggere quella felicità così raggiungibile, così a portata di mano, rispetto alla felicità dettata dal consumismo?


Il consumismo è un implacabile dispensatore di felicità, infatti è «la prima vera possibilità di liberarci della resistenza della realtà», dice Bauman. Basta trovare il negozio giusto. Oggi ogni negozio è una farmacia in cui lenire i dolori che la buona vecchia natura ci infligge con i suoi uragani, terremoti, solleoni, monsoni, umane bassezze, tradimenti e cuori spezzati. Basta scegliere il negozio giusto e rimettiamo a posto la relazione dolorosa con la realtà, scegliendo l’oggetto che salverà la nostra frustrazione, rispondendo come noi ci aspettiamo, soddisfacendo senza fallo le nostre aspettative. Siamo diventati soggetti che comprano oggetti che finalmente rispondono perfettamente. Non importa che la nostra capacità di guardare negli occhi la realtà e gli altri si sia dimezzata, perché siamo impegnati a guardare lo smartphone che risponde perfettamente all’ansia di controllo e al desiderio di trascendere se stessi. La tecnologia sostituisce egregiamente quel mondo naturale, colpevole di essere troppo indifferente ai nostri desideri.

Infatti non si fa in tempo a crescerli questi figli, che già hanno in mano gli oggetti che avrebbero almeno potuto desiderare. Non gli abbiamo dato neanche il tempo, di desiderarli. La loro capacità di desiderare, atrofizzata per poco uso, anchilosata per troppa soddisfazione, non vuole più conoscere, cercare, scegliere, attendere. Non ne vale la pena. Eppure i genitori sanno bene che il bambino privato di qualcosa è costretto a mettere in atto la sua immaginazione per risolvere il dolore. Se un bambino chiede un secondo gelato e i genitori pur di non sentirne i capricci glielo comprano non solo lo viziano, ma gli tarpano le ali. Chi ha tutto non comincia mai la ricerca, perché non mette in moto l’immaginazione, la creatività, la sua relazione con il mondo a partire dalle proprie risorse interiori. Se i genitori resistono il bambino dovrà trovare altro per occupare il suo “bisogno” e lenire il dolore, magari sarà un gioco inventato sul momento: un mazzo di chiavi agitato in aria dal papà, di fronte al quale il bimbo rimane incantato. Lo porta alla bocca e così conosce qualcosa di nuovo, proprio grazie a una privazione, e inventa un gioco con quelle chiavi. I bambini che hanno tutto e hanno tutto il tempo pieno, che non si annoiano mai, sono atrofizzati nella loro creatività, riempita dall’esterno e mai sgorgante dall’interno. E lo stesso vale per i ragazzi rimpinzati di oggetti, emozioni e tempi pieni. Quelli che non si annoiano mai sono fregati: il loro processo creativo, cioè lo scavare e scovare le risorse dentro di sé e non fuori, per arginare il vuoto e il nulla, rimane soffocato. E la realtà ha e fa troppa “pena” perché valga la “pena” giocarci dentro.

Eppure giorni fa in treno avevo di fronte a me una coppia di trentenni che giocavano. Lei aveva qualcosa che le pesava sul cuore e la rendeva triste e silenziosa. Lui a un tratto ha scritto qualcosa su un taccuino bianco, poi le ha passato il taccuino. Si è messa a leggere svogliatamente e ha chiuso il taccuino. Dopo un po’ qualcosa ha rotto le sue difese, ha preso la penna e ha scritto sul taccuino che ha poi passato a lui. Non si dicevano una parola. Non si guardavano neanche negli occhi, si passavano il taccuino chiuso con la penna sopra, come fosse una mano di poker tra abili giocatori. Il gioco è andato avanti per quasi un’ora. A poco a poco ho visto il volto di lei rilassarsi e cominciare a sorridere. Dopo poco ogni lettura si concludeva con una sonora risata, mentre l’altro sorrideva in attesa. Alla fine hanno cominciato a parlare e ridere. Quei due si amavano. Lui l’aveva stanata dalla sua tristezza. E lo aveva fatto con un gioco, come quelli invocati dai bambini, mettendoci la sua semplice presenza creativa: taccuino, parole scritte a penna, attesa.

Mi è sembrato un rito di eros e agape. Darsi e riceversi come l’altro ha bisogno. Senza scorciatoie, piano piano, nel tempo presente e nel tempo della presenza. Non era la relazione di un soggetto con un oggetto che risponde perfettamente. Anzi, il contrario: lei non aveva voglia di esser felice. Era la relazione tra due soggetti, tra due persone, che si richiamavano alla reciproca fedeltà. Non si buttano via le persone quando non rispondono perfettamente, quando non soddisfano le nostre aspettative, non si buttano via come si fa con gli oggetti, che non richiedono fedeltà.

Con gli oggetti ci sentiamo forti: interrompiamo la relazione quando vogliamo, ma in realtà questa mancanza di fedeltà, persino verso le cose, ci rende più fragili, perché la forza della vita non sta nella liquidità delle relazioni, ma nella loro profondità e faticosa grandezza. Forse per questo la moglie del ricchissimo e impegnatissimo inventore di Facebook ha fatto firmare al marito un contratto matrimoniale nel quale era pattuito che avrebbero passato 100 minuti alla settimana sotto le lenzuola. Priscilla non ha permesso al marito di giocare solo con Facebook, lo ha obbligato a ricordarsi di lei.

Forse più che felicità dagli oggetti noi vogliamo attenzione e fedeltà dalle persone. Quella attenzione e fedeltà che fa felici i bambini che aspettano i loro padri per giocare, presenti nel presente. Forse potrebbero metterlo a contratto anche loro, per essere felici.


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