mercoledì 5 giugno 2013

A che serve la bellezza?



Ogni mattina passo davanti a questo cassonetto. Un ordinario cassonetto del prenestino, nulla di speciale, magari un po' più trasandato e sporco dei suoi colleghi di via Cherso. Il mio fastidio nel passare di fronte al malcapitato e incolpevole contenitore è crescente nel tempo e ha subito un'impennata dopo la nascita dei figli. Perché questo fastidio e, soprattutto, perché da quando ci i pargoli è peggiorato? Un giorno, mentre cercavo risposte a queste domande, mi è tornata in mente il discorso, che per me è stato folgorante, con cui Peppino Impastato ne I cento passi commentava lo scempio di Punta Raisi:



Educare alla bellezza, ci ho pensato tanto guardando quel benedetto cassonetto, che è oggettivamente brutto, e per questo mi urta il sistema nervoso. Si potrebbe obiettare che parlare di bellezza non è proprio una cosa così fondamentale: facciamo tanti discorsi sulla concretezza e invece questo sembra un concetto superfluo, filosofico, buono più per questioni accademiche che per affrontare i problemi di in un quartiere di periferia come il mio.
Poi però capita che un paio di mesi fa ci troviamo al percorso per coppie organizzato dall'equipe di  Betania e si cita il passaggio della Genesi: "E Dio vide che era cosa buona", ripetuto alla fine di ogni giorno della Creazione. Buono traduce il termine aramaico "Tob" (si dovrebbe leggere tòv o qualcosa di simile) che vuol dire BUONO ma anche BELLO. Per i semiti buono e bello sono strettamente legati, non esiste nulla che sia molto buono e che non si porti dentro un linguaggio di bellezza. Paradossale che noi abbiamo perso di vista questo punto, visto che è una delle cose più frequentemente associata al nostro paese. Forse questo pensare così antico ha la sua validità anche per noi, la generazione della Grande Crisi: preoccuparsi solo delle conseguenze (la crisi economica) di aver perso una visione organica della società è come curare solo i sintomi di una malattia: se un medico si comportasse così non sarebbe certo in lizza per il Nobel per la Medicina!


Bene, allora "educare alla bellezza" non è una cosa così secondaria, ma fa parte integrante del lungo e faticoso processo che porta ad una società migliore. Ma non è ancora chiara una cosa: che c'entra tutto questo con un blog di padri? Non è che sto prendendo a pretesto questo blog per ficcarci dentro i miei attacchi di grafomania? E invece c'entra, perché la vita familiare è una formidabile palestra per tutto questo e nasconde anche una chiave di lettura sorprendente. Da quando mi sono sposato, infatti, grazie soprattutto a mia moglie, ho imparato che vivere in un ambiente curato, non sciatto, non lasciato al caso è parte integrante del mio matrimonio. Ad esempio all'ingresso della nostra casa per 3 anni abbiamo tenuto una vecchia libreria proveniente dalla casa dei miei, il classico mobile che ti porti dietro all'inizio del matrimonio con l'idea che "poi si vedrà". Una normale libreria, senza infamie e senza lode (diciamo più tendente alle infamie che alle lodi, a dirla tutta). Da sempre mia moglie premeva per cambiarla, mentre io lo consideravo uno sforzo un po' inutile, in fondo stava lì, svolgeva la sua funzione egregiamente, perché spendersi così tanto per cambiarla? Magari risparmiamo i soldi e ci facciamo un viaggetto in più, non è meglio? .... e come sempre succede alla fine ci siamo mossi per farlo, perché una donna quando si tratta di casa alla fine vince sempre (come diceva Pennac, solo il bush australiano è un luogo sufficientemente lontano per sfuggire alla determinazione di una donna). Non è stato "gratis", spontaneo; abbiamo vinto un'inerzia, subito una piccola ma significativa frustrazione:

1) vai da IKEA
2) cerca la libreria
3) orientati nel dedalo di sigle e numerelli del magazzino Ikea per prendere i pezzi (chissà perché ce n'è sempre uno introvabile!)
4) trasportala a casa violando il principio di impenetrabilità dei corpi per farla entrare in una Atos
5) dìsfati della precedente (finita nel caminetto di mia sorella)
6) impiega 2 serate per montarla e riempirla, poi rismontala e rimontala perché ti sei sbagliato (altre 2 serate)

però alla fine, dopo essermi buttato esausto sul divano sudato e coperto di polvere e trucioli (per 4 buchi col trapano, manco avessi buttato giù una parete), ho guardato verso la nuova arrivata e ho detto: "ma come abbiamo fatto finora a tenerci quella cosa che c'era prima? La casa ora sembra un'altra".
E' paradigmatico, ho vissuto la stessa cosa dopo aver pitturato una stanza, riordinato il balcone, comprato il mobiletto della TV.
Questo esempio si porta due conseguenze. La prima è che non partiamo da zero. Un linguaggio di bellezza ce lo portiamo dentro, probabilmente in Italia più che altrove (e vai col luogo comune), lo respiriamo generalmente tra le quattro mura domestiche. Si tratta di portarlo fuori dalle mura di casa, di capire perché abbiamo difficoltà a fargli superare la soglia psicologica dello zerbino.  Ecco il punto, varcare questa soglia, "percepire" la città, i luoghi comuni che si abitano come casa propria. Come non accetterei che ci fosse una buccia di banana in mezzo al mio salone, devo lavorare per maturare lo stesso fastidio, la stessa intolleranza al brutto, al trasandato, al parcheggio selvaggio che, purtroppo, è lo spettacolo tipico di molte strade della nostra città.  E soprattutto educare i miei figli a tutto questo, perché il diventare padri dilata la tua vita, la trasforma in una staffetta di cui non occupi che una frazione e i pargoli la successiva, in attesa del testimone. E' per questo che da quando sono nati i pargoli io quel cassonetto non lo sopporto più, perché tutto quello che lasceremo di irrisolto nella nostra vita resterà a loro; posso anche ignorarne l'esistenza, ma non farò altro che scaricare su di loro tutti i problemi che non abbiamo affrontato noi.
La seconda è che nessun pranzo è gratis, come direbbe M Friedman. Non basta tutta questa sapiente consapevolezza, perché il cassonetto ad oggi è ancora lì in tutta la sua sciatteria. La mia generazione per tanti motivi ha sempre avuto paura di identificarsi, di "sporcarsi le mani", limitandosi spesso ad esprimere il proprio dissenso con una indignata consapevolezza, ben presto degenerata in disfattismo. E' come se un medico si limitasse ad arricchire indefinitamente la propria diagnosi. "Guardi signora X, lei ha un tumore: qui lo può vedere in 2 dimensioni, a colori, in 3D, poi lo misuriamo, lo pesiamo, ne stimiamo densità, colore, forma..." Si vabbé, ma come lo attacchiamo, che cura mettiamo in campo? E' necessario cominciarla questa cura, passare per un impegno ed una piccola frustrazione analoghi all'acquisto della libreria di cui sopra, perché la politica continuerà a fare schifo fintanto che noi la delegheremo a qualcun altro, fino a quando non la "abiteremo" in prima persona, che non vuol dire collegarsi su internet e votare per le quirinarie del M5S.
 Per questo ho cominciato a guardarmi intorno per dare concretezza a tutte queste dotte elucubrazioni. A portarle oltre lo zerbino di casa. Per i miei figli, prima di tutto.

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