martedì 18 novembre 2014

Piu idraulici, meno bambini

(di daddy full)

Sto guardando il volantino di una pubblicità immobiliare. Vendono appartamenti per famiglie in una zona semicentrale. Lo stabile è di nuova costruzione. Osservo quelle piantine più e più volte: c’è qualcosa che non torna. Un bilocale di 85 metri quadrati è composto solo da una sala con cucina non abitabile e una stanza da letto. Se si vuol conquistare una camera per metterci un figlio ci si deve spingere alla proposta da 135 metri quadrati. Ma si deve avere (o programmare di avere) un figlio solo: un altro non ci sta nemmeno col letto a castello. Se scende, rischia di sbattere conto l’armadio in fianco. Se il figlio invita un amico, questo o dorme sul divano o sul balcone. E parliamo di 135 metri quadrati! In compenso ci sono tre bagni. Uno per la coppia, uno per il possibile figlio unico, l’altro per le emergenze.
Per curiosità ho cercato un appartamento in cui farci stare 3 figli come ne ho ioNon c'è. Nei 175 metri quadrati del volantino di queste nuove case, di figli ce ne stanno due appena, e a malapena, in due camere-loculi. Però ci sono tre balconi. E tre bagni ovviamente. Mi sono incuriosito e ho cercato un appartamento in uno stabile un po’ più costoso. Per trovare tre camere da letto, una per i genitori e due per i figli, devi arrivare fino a 215 metri quadrati.
Penso alla casa dove sono cresciuto, dove 90 metri quadrati erano disegnati per avere tre camere, una sala, e una cucina dove potevi anche mangiare. Non serve molto spazio, basta distribuirlo bene. Ma è il segno dei tempi: la gente non fa più figli, gli architetti si adeguano. Eppure è vera anche un'altra cosa, e parlo per esperienza diretta: se in casa c’è un po’ di spazio, il desiderio di riempire le camere arriva. Ditelo ai costruttori e agli architetti. Quando il terzo bagno prende il posto del secondo figlio, l'unico ad essere contento è l'idraulico.

(fonte papà 24/7)

mercoledì 12 novembre 2014

La vera domanda è rischiare l'anima

(di Davide Rondoni)


I nostri ragazzi non fanno domande, perché? Una idea ce l’ho. Ma la devo dire piano. Spesso si sente dire che i nostri ragazzi, nelle Università ma non solo, non fanno domande. Non fanno domande a lezione, spesso non usano dei momenti di colloquio coi docenti. O lo usano per avere qualche informazione. E molto spesso mi sono sentito dire prima di fare una conferenza o una lettura di poesie a dei giovani: «Sai, poi non fanno mai domande». Previsione sempre peraltro smentita. Ma questa faccenda dei giovani che avrebbero smesso di fare domande mi incuriosisce. Se i giovani smettono di fare domande, e gli adulti smettono di essere inquietati, messi in questione dalle loro domande, una società si isterilisce e si spacca, si divide in generazioni che non si passano cose, ma stanno tra loro come faglie che si urtano. L’ho sentito ripetere da docenti di diversi atenei. Anche se naturalmente non mancano eccezioni. L’ultima volta che una brava docente universitaria me lo ha detto, le ho domandato: «Ma ti sei chiesta perché?». La sua faccia un po’ perplessa e l’abbozzo di risposta («forse per timore reverenziale...») mi ha confermato che no, non ci aveva pensato su granché.

Perché un giovane non fa domande all’adulto che è lì – o almeno dovrebbe essere così – per lui, per insegnargli qualcosa? Ci sono molte cause ambientali, diciamo così. Sicuramente, il fatto che l’università anche italiana abbia deciso di organizzarsi secondo lo schema 'a crediti', ha spesso reso la vita e il tempo degli studenti secondo un ritmo 'fai e incassa' rispetto al quale ogni surplus di interesse sembra, appunto, in più. Da questo, e da una certa riduzione impersonale, o più esattamente, funzionale del rapporto con il docente, visto come una specie di erogatore di servizi/crediti, il valore del fare domande viene frustrato o non incoraggiato. Ma la mia idea è che – al di là dei condizionamenti ambientali – ci sia sotto una questione enorme.

Il fatto è che le persone smettono di fare domande quando non si sentono (più) a rischio. Intendo dire che il genere di domanda e di curiosità dipende dal tipo di rischio che vivi. Se l’unico rischio che pensi di correre è quello di perdere la pensione o il lavoro, o fosse pure il rischio di perdere qualche buona occasione, rivolgerai domande di quel genere. Ovvero, nel caso del rapporto docente/ragazzo nasceranno tutt’al più domande limitatamente al servizio che il docente sta facendo, e se si possono evitare tanto meno disturbo per tutti. Al massimo si chiede di erogare bene quel servizio.

Nessuna curiosità in più o domanda di altro approfondimento, di apertura. Se invece avverti che la vita è un rischio totale che riguarda il perdere te stesso (l’anima, si dice) allora ogni occasione di confronto con qualcuno di autorevole, fosse pure in un settore particolare della vita, diviene occasione di curiosità e di scoperta. Se stai rischiando te stesso vivendo, ogni occasione è buona per imparare a farcela. Come Dante che nella selva oscura grida la sua domanda verso Virgilio, chiamato «lo mio autore». Ma se non mi sento nella selva, cosa me ne faccio di un «autore»? Di uno autorevole?

L’altra faccia della medaglia, infatti, riguarda la autentica autorevolezza. Non basta avere la targhetta 'prof' per essere avvertito autorevole da un giovane. Occorre, come Virgilio per Dante, essere percepito come uno che ha vissuto lo stesso rischio e che lo rivive. A nessuno che stia correndo un rischio vero (e un giovane, per quanto confusamente vive l’età del rischio) viene voglia di chiedere qualcosa a chi tale rischio sembra che non sappia cosa sia. Se non ti giochi l’anima di fronte ai ragazzi che hai di fronte, come pretendi che ti facciano vere domande? Al massimo chiedono qualche servizio in più. Aver diminuito spaventosamente il senso del rischio che si corre vivendo, averlo ridotto a un mero rischio di carriera o di successo, ha diminuito la dose di domanda. Allo stesso modo vale per la lettura: se non mi sento a rischio perché cercare autori? La lettura non cala solo perché i libri costano o per colpa di internet. Aver cacciato gli uomini dal grande rischio dell’anima li ha resi meno interessati a tutto.

(fonte: Avvenire)

giovedì 6 novembre 2014

Dichiaratevi adulti


Adulto: participio passato del verbo "adolescere"... colui che ha smesso di crescere



domenica 2 novembre 2014

2 novembre


Oggi ho portato i miei quattro figli  al cimitero del Verano per far visita alla tomba di mio padre. Era la prima volta che venivamo tutti insieme, ed è stato molto bello. C'era tanta gente, tante persone che sono venute a salutare i loro cari defunti. C'erano però anche diverse tombe lasciate senza un fiore, senza un ricordo. Una di queste si trova prorpio di fronte alla tomba di mio padre...E' di una bambina morta lo stesso giorno in cui è nata. La tomba, così abbandonata, ha colpito i miei figli ma ancor di più chiaramente li ha colpiti il fatto che quella bambina (Isabella è il suo nome) sia vissuta così poco. Ci siamo detti che alla prossima visita per il nonno porteremo dei fiori anche per lei...

"Portare un fiore su un a tomba è un segno di speranza e di fede: ponendolo sulla terra o sulla pietra diciamo che nel nostro cuore c'è la certezza, la fiducia o almeno il desiderio che quella pietra o quella nuda terra, come il deserto quando viene la pioggia o come i campi dopo un gelido inverno, tornino a fiorire, restituendoci la vita di chi ci è caro.

I cristiani sanno che questo è vero perchè Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, ha condiviso l'esperienza della morte con ogni uomo ma, con la forza dello spirito Santo, ha vinto la morte nella risurrezione e ha aperto a ogni uomo e a ogni donna il passaggio da questa esistenza terrena alla pienezza di vita eterna.

Fermati un istante sulla tomba dei tuoi cari e condividi con loro  e per loro un istante di preghiera. Condividilo anche con la tua famiglia, con i filgi e i nipoti, perchè non serve occultare la morte e le domande che essa ci pone, ma è opportuno aprire il nostro cuore alla grazia di Dio che dona consolazione e fiducia"